Perché "No True Feminist"
Perché "No True Feminist"

Ci sono diversi motivi dietro al nome di questo blog.

Forse il più ovvio di tutti è il riferimento alla nota fallacia logica del “No true Scotsman”, ovvero “nessun vero scozzese”.

Wikipedia spiega di cosa si tratti, anche se forse in un modo un po’ arzigogolato:

una ridefinizione ad hoc del contenuto di una propria affermazione che contiene una generalizzazione non motivata, al fine di sottrarsi a un’obiezione che la confuta.

In parole semplici, si tratta di un trucco mentale, spesso involontario, per proteggere le proprie convinzioni da critiche scomode.

L’esempio da cui viene il nome della fallacia è quanto segue:

– “Nessun vero scozzese mette lo zucchero nel porridge.”
– “Ma mio zio Angus è scozzese e lo fa.”
– “Allora non è un vero scozzese.”

Nel corso della mia storia col femminismo, ho perso il conto di quante volte sia stata testimone di un atteggiamento simile:

“La nota femminista X non crede che le donne trans siano vere donne”
“Ma le TERF non sono vere femministe”

Oppure:

“Se ti depili, se indossi il reggiseno o il velo, se ti trucchi ecc. non sei una vera femminista”.

“Essere femminista è incompatibile col desiderio di essere moglie e madre”.

“Puoi definirti femminista solo se dedichi tutte le tue energie a smantellare il sistema in cui viviamo: se predichi bene ma razzoli male, ad esempio se critichi il capitalismo dalla tua pagina Instagram sul tuo iPhone di ultima generazione, che usi anche per vendere magliette rosa con la scritta Smash the Patriarchy, allora stai comunque beneficiando del sistema che dici di voler estirpare.”

O ancora:

“Il vero femminismo supporta le sex worker, perché le donne devono essere libere di fare quello che desiderano con la loro sessualità.”

(Oppure, nella versione opposta:)

“Il vero femminismo è contrario alla pornografia, perché le donne nel sex working sono comunque al servizio degli uomini, dunque non veramente libere.

Insomma, tanti esempi di un modus operandi piuttosto ricorrente: se fai parte del mio stesso gruppo, non è concepibile che tu la pensi in modo diverso sul medesimo argomento. Se non aderisci alla mia idea di femminismo, allora non puoi farne parte.

Questo nonostante la consapevolezza — almeno a parole — che non esista un unico femminismo, compatto, coerente e dotato di un singolo manifesto politico. Esistono i femminismi: molteplici, diversi, talvolta contraddittori.
E banalmente, chi aderisce a uno o più di questi femminismi è una persona, con un vissuto unico e un sistema di valori che si è formato nel tempo. È quindi naturale — anzi, auspicabile — che all’interno del movimento esistano voci differenti, anche in disaccordo tra loro.Sarebbe inquietante il contrario: un femminismo con la sua “Bibbia” e il suo “Catechismo”, che stabiliscono cosa pensare e cosa no. Non sarebbe un movimento ma piuttosto uno “stare fermi immobili”, e quindi in antitesi con la tensione al cambiamento che il femminismo dovrebbe incarnare.

Sia chiaro: il problema non è che ci siano idee diverse nel movimento. Il problema nasce quando queste differenze ci spaventano, e invece di riflettere su ciò che ci mettono in discussione, preferiamo erigere barriere, dichiarare che l’altra persona — quella con cui non siamo d’accordo — non è “dei nostri”. Anche quando lei stessa, per prima, si riconosce come parte del gruppo.
Sia altrettanto chiaro che questa mia denuncia della fallacia non nasce solo dal desiderio di puntare il dito verso comportamenti altrui.


Il secondo motivo dietro al nome di questo blog è che io per prima ho commesso vari “no true Scotsman: feminist edition”. E se la memoria non mi inganna, non sono stati pochi.

Ricordo di aver assistito a prese di posizione che non condividevo, o a comportamenti che giudicavo negativi, talvolta tossici, da parte di colleghe femministe. La mia reazione? Più o meno questa:

Quello non è — non può essere — vero femminismo. Io sono femminista, e non direi o farei mai una cosa del genere!

Mi autoeleggevo, in buona sostanza, a rappresentante di un non meglio precisato “femminismo buono”. E chi non si dimostrava all’altezza di quella mia idea ideale, automaticamente ne veniva escluso.

Una delle circostanze che ricordo con maggiore lucidità è legata a una delle periodiche shitstorm aizzate da alcune realtà femministe contro Marco Crepaldi. In quell’occasione, pubblicai un post su Facebook in cui esprimevo solidarietà allo psicologo, scrivendo:

Sono femminista, e credo che il femminismo sia meglio di così.

(L’aspetto divertente, tra l’altro, è che anch’io sono stata definita “non una vera femminista” — ad esempio quando sostenevo che anche le donne, a volte, possono essere sessiste verso gli uomini. Insomma, mi viene da pensare che alla fine della fiera il “vero femminista” non esista proprio: siamo tutti “femministi sbagliati”, diciamocelo e mettiamoci il cuore in pace 🙂).

Il tranello di questo modo di pensare è sottile, ma insidioso. Certo, esistono approcci diversi: c’è un femminismo più radicale, che nei toni e nei contenuti può risultare aggressivo, e uno più “soft”, che appare accogliente e diplomatico. Ma non esiste un “vero femminismo” da opporre a quello “falso”.

Esiste il femminismo — e chi vi aderisce, in buona fede, è femminista.

Il rovescio della medaglia dell’assenza di un Catechismo Femminista, o quantomeno di un manifesto condiviso da tutti, è proprio questo: chiunque si riconosca nella lotta per la parità politica, economica e sociale tra i sessi può definirsi femminista.
Non esiste un test di ingresso, né una lista di caratteristiche da spuntare. Non c’è un badge da conquistare, né un attestato ufficiale di Vero Femminista™.
E quindi, se io sento il bisogno di prendere le distanze da chi, pur definendosi femminista come me, porta avanti idee o azioni che reputo inaccettabili… forse il problema non è quella persona, e nemmeno il mio ideale.

Forse il problema è nella natura stessa del femminismo — aperta, disordinata, imperfetta — e nel modo in cui io (come tanti altri) vi aderisco, cercando dentro un movimento collettivo la rassicurazione di un’identità personale limpida e coerente.


E qui arriviamo al terzo motivo dietro al nome No True Feminist.

Nonostante, come dicevo poco sopra, il femminismo sia molto bravo a presentarsi come accogliente, quasi universale nel ricevere tutte le individualità, col senno di poi non riesco a dire di essermi mai davvero sentita parte del movimento. E dire che, per diversi anni, ne ho fatto parte anche formalmente (ad esempio unendomi a collettivi, sulla rete e in real life, organizzati ora dalla mia università, ora dall’influencer femminista che seguivo sui social).

Ho sempre lottato per la parità di genere — nel mio piccolo, con le modalità che ritenevo più giuste. E spesso mi sono scontrata con persone che, pur condividendo l’obiettivo, proponevano strade molto diverse dalla mia. A volte trovavo correnti più vicine al mio sentire, ma mai del tutto; c’era sempre qualcosa che strideva, che mi faceva sentire fuori posto.

La verità è che il raggiungimento della parità è un processo complesso, e a volte mi sembrava che, per il bene della “causa”, la mia individualità dovesse passare in secondo piano. Che bisognasse mostrarsi come un fronte compatto, perché il nemico là fuori — patriarcale, organizzato, aggressivo — non avrebbe esitato a usare ogni crepa interna come un’arma a proprio favore.
E allora meglio non mostrare dubbi, meglio non discutere pubblicamente, meglio non dissentire.

Ma questa pressione all’omogeneità mi stava stretta. Aggiungiamoci una serie di episodi che proprio non mi sono piaciuti — alcuni già citati, altri che approfondirò qui sul blog — e la distanza è diventata inevitabile.
Parlo di: shitstorm contro chiunque osasse mettere in discussione la femminista di turno; posizioni dogmatiche, ripetute come verità assolute; totale mancanza di voglia di confronto; una retorica spesso vittimista, a tratti populista, più orientata all’indignazione che al cambiamento; e tanto altro.

Un po’ alla volta, ho cominciato a provare disagio nel definirmi femminista. Quella che un tempo era un’identità che indossavo con orgoglio si è trasformata in una fonte crescente di imbarazzo, fino a diventare quasi un peso, al punto in cui è arrivato un momento in cui ho deciso di smettere di definirmi tale.
In sostanza, durante tutta la mia storia con il femminismo mi sono spesso sentita un po’ un pesce fuor d’acqua. E in effetti, continuo a sentirmi così: ho abbandonato l’etichetta di femminista, ma non ho certo smesso di dare il mio contributo – nel mio piccolo – per il raggiungimento della parità di genere.

Mi sono sentita, e mi sento ancora, una no true feminist. E forse va bene così.


Ricapitolando, vorrei che il nome scelto definisse anche l’impronta e il tono di questo blog.
No true feminist vuole essere:

  1. uno spazio fondato sul rigore logico e scientifico, sul pensiero critico e sulla razionalità – strumenti fondamentali per riconoscere e superare bias cognitivi e fallacie, come quella del “vero scozzese”;
  2. una critica al meccanismo di esclusione, al “non è vero femminismo” usato troppo spesso per evitare il confronto interno e mettere a tacere opinioni “scomode”;
  3. una riflessione personale, perché io per prima non mi sento più una vera femminista – ma continuo a interrogarmi sul perché, senza rinnegare i valori che mi hanno spinta a esserlo.

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