Negli ultimi decenni, il femminismo ha ampliato enormemente il suo raggio d’azione. Nel tentativo di abbracciare ogni causa e combattere ogni ingiustizia, è diventato sempre più intersezionale: si è fatto carico delle lotte contro il razzismo, l’omofobia, la transfobia, la disuguaglianza economica, e molte altre ancora. Questo approccio, pur mosso da buone intenzioni, ha finito per diluire — e in certi casi oscurare — la sua missione originaria: migliorare concretamente la condizione femminile.
Mansplaining, depilazione, schwa
Molte delle battaglie più visibili oggi, come il dibattito esasperato sul linguaggio inclusivo, la depilazione come scelta politica, o la caccia al mansplaining, sembrano più esercizi simbolici che strumenti reali di emancipazione.
Non che tali questioni siano irrilevanti, ma il peso e lo spazio mediatico che ricevono rischiano di far passare in secondo piano problemi ben più urgenti e tangibili, come la violenza domestica, il divario di accesso a certe carriere, o la conciliazione vita-lavoro. Il risultato è uno scontro culturale sterile, in cui il dibattito si riduce a simboli e linguaggio, più che a politiche e cambiamenti reali.
Profezie autoavveranti
Anche il modo in cui si raccontano certe sfide rischia di produrre effetti indesiderati.
Allertare sistematicamente le giovani donne che intraprendono percorsi professionali dominati dagli uomini (STEM, edilizia, industria) su quanto saranno discriminate o molestate può, paradossalmente, trasformarsi in un freno alla loro motivazione.
Se ogni racconto di carriera in un contesto maschile suona come un campo minato, molte potrebbero rinunciare prima ancora di provare. E così la previsione di “poche donne in certi settori” diventa una profezia che si autoavvera.
Sì, la discriminazione esiste e va combattuta. Ma trasformare ogni contesto competitivo in un ambiente ostile a priori non aiuta né chi vuole emanciparsi, né chi vuole creare ambienti realmente più inclusivi.
Intersezione dopo intersezione… fino all’individuo
La spinta intersezionale ha portato anche un altro effetto collaterale: il movimento femminista, assumendo su di sé ogni battaglia per ogni minoranza, ha finito per diventare sempre più frammentato, dispersivo, nonché incline a logiche da “gruppo chiuso”.
Se non aderisci a tutte le cause e a tutte le posizioni politiche richieste — se esiti anche solo su una singola sfumatura — vieni rapidamente percepito come un nemico o un traditore. Invece di concentrarsi sui bisogni reali e specifici delle donne (e più in generale degli individui), il movimento sembra spesso più preoccupato di preservare l’ortodossia ideologica interna. Questa logica “o con noi o contro di noi” scoraggia il pensiero critico e riduce la diversità interna, proprio in un movimento che si dice inclusivo.
Una battaglia che si disperde su troppi fronti, che giudica più che includere, che richiede fedeltà assoluta più che spirito critico, rischia di perdere la sua efficacia. E, col tempo, anche la sua credibilità.
Esempi
[Le bambine] si guardano attorno e non vedono esempi femminili in posizioni di potere, così si convincono di non poter raggiungere una posizione di quel tipo e smettono di adoperarsi per diventare ciò che vorrebbero. Cominciano a voler diventare altro: la modella, la ballerina, la maestra, l’infermiera… Non possono sperare di diventare qualcosa che non esiste.
[Questo in favore delle quote rosa… Posto che non si capisce cosa ci sia di male nel diventare modella, ballerina o maestra, come avrebbe fatto però la prima donna informatica / chimica / astronauta / presidente a diventare tale?]
“In Germania le femministe che criticano il velo islamico se la passano male”: https://archive.ph/ugxOK
“No, il mansplaining non è semplice arroganza”: https://web.archive.org/web/20250518203753/https://www.bossy.it/no-il-mansplaining-non-e-semplice-arroganza.html
“Spazi rubati: dal manspreading ai turni di parola”, Elena Panciera: https://archive.ph/QSBwy
L’Università di Trento propone il ‘femminile sovraesteso’ nel regolamento: https://archive.ph/8BQIl
“Il corpo, uno strumento (peloso) di militanza”: https://web.archive.org/web/20250518190222/https://www.bossy.it/il-corpo-uno-strumento-peloso-di-militanza.html
Thin privilege e grassofobia: https://archive.ph/kkjX8
“L’intersezionalità è un’affettatrice per scomporre l’individuo”, Guido Vitiello: https://archive.ph/fQWQ0


Letture e approfondimenti:
Yasmina Pani, Schwa: una soluzione senza problema
- Critica l’introduzione dello schwa nel linguaggio inclusivo italiano, sostenendo che manchi di basi scientifiche solide: ad esempio, l’idea che la lingua influenzi direttamente il pensiero e la società non è universalmente accettata nella comunità scientifica.
- Distingue tra genere grammaticale e identità di genere, e ritiene che modifiche linguistiche imposte dall’alto rischino di ostacolare la comunicazione. Invita anche a un approccio più razionale e meno ideologico sul rapporto tra lingua e inclusione.
Annina Vallarino, Il femminismo inutile
- Nel capitolo “L’intersezionalità: teoria dalle troppe identità”, l’autrice critica l’intersezionalità come una teoria che, tentando di rappresentare tutte le identità marginalizzate, finisce per frammentare il discorso e creare nuove gerarchie vittimarie.
- Secondo l’autrice, questa logica esclude chi non rientra nei gruppi oppressi e alimenta divisioni. L’intersezionalità, nata per includere, si rivela una trappola identitaria.
Greg Lukianoff & Jonathan Haidt, The Coddling of the American Mind
- Argomenta che politiche identitarie basate sul conflitto trasformano l’identità in un campo di battaglia morale, dove il valore di una persona è determinato dal grado di oppressione che subisce, anziché da ciò che fa o pensa — col rischio di alimentare divisione, fragilità emotiva e vittimismo competitivo.