thescoutmindsetedit

Chi tra voi abbia un occhio di falco avrà forse già notato l’uso di un hashtag in particolare che non ha legami apparenti con gli altri o con i temi del blog… mi riferisco a #scoutMindset. L’ho già menzionato, oltre che come tag, anche nel primo articolo del blog.

Per chi fosse in alto mare, si tratta del titolo di un libro — The Scout Mindset, appunto. È il primo e finora unico saggio dell’autrice americana Julia Galef, pubblicato nel 2021.

Ho scoperto e letto questo libro l’anno scorso, nella versione inglese, perché non sapevo esistesse la traduzione italiana, e anche perché tendo a preferire i testi in originale (ovviamente se si tratta di una lingua a me nota). In italiano s’intitola “Esploratori e soldati”, e avendo imparato della sua esistenza non più di cinque minuti fa, in questo articolo mi riferirò però alla versione originale, anche perché alcuni termini — come scout o mindset — hanno una forza particolare che si perde in traduzione.

Il motivo per cui dedico il primo articolo “letterario” a questo saggio in particolare è semplice: da quando l’ho concluso, è diventato per me una specie di bussola. Ha influenzato il mio modo di analizzare e discutere sui temi a me cari, e probabilmente è stato una delle scintille che mi hanno portato, a qualche mese di distanza, a decidere di dar vita a No True Feminist.

Il mio obiettivo è infatti cercare verità e chiarezza in un campo, quello del femminismo e delle questioni di genere, spesso dominato da slogan, polarizzazione e semplificazioni: The Scout Mindset mi ha offerto una serie di strumenti e consigli pratici per allenare il pensiero critico, mettere in discussione le mie credenze, evitare trappole come i bias di conferma, ed esporre le mie convinzioni in modo efficace, anche durante un confronto acceso.

Ve ne voglio parlare non solo per illustrare il metodo che utilizzo (e continuerò a utilizzare) per scrivere qui sul blog, ma anche perché possa essere utile a voi: magari vi darà qualche spunto da applicare nella vita quotidiana o nel modo in cui affrontate discussioni complesse.

Ma ora basta con i convenevoli: che cos’è, dunque, lo scout mindset?


Soldati ed esploratori

Quando ragioniamo, ci sembra di essere obiettivi ed equilibrati, di valutare i fatti in modo spassionato. Sotto la superficie della nostra consapevolezza, tuttavia, è come se fossimo soldati che difendono le proprie convinzioni da prove che costituiscono una minaccia.

Questa è la metafora che accompagna l’intero libro: due mindset diversi, due modi di affrontare la complessità del mondo.

  • Il soldato, ovvero colui che difende le proprie convinzioni già formate, cerca argomenti che confermino ciò che vuole credere, e respinge con forza ciò che lo mette in difficoltà.
  • L’esploratore, cioè colui che cerca di capire come stanno davvero le cose, anche se le conclusioni possono essere scomode o inattese.

In psicologia, la mentalità del soldato corrisponde al ragionamento direzionato: tendiamo a usarla quando cerchiamo non la verità fattuale, bensì conferme delle nostre credenze pregresse.

Quella dell’esploratore, invece, è l’atteggiamento di chi vuole costruire una mappa il più possibile accurata della realtà: non ha paura di doverla aggiornare a mano a mano che apprende nuove informazioni, anche se contrastanti con quelle già in suo possesso, perché ciò che conta non è difendere un fortino ma orientarsi meglio nello spazio attorno a sé. La sua bussola non è “Cosa prova che ho ragione? Come difendo la mia posizione?”, bensì “Quanto è fedele la mia mappa al territorio?”.

Naturalmente non esistono individui totalmente “soldati” o totalmente “esploratori”: piuttosto tutti noi oscilliamo tra le due modalità, anche se di solito una delle due prevale in ciascuno di noi. Imparare a riconoscerle è già un primo passo per allenarsi a stare più spesso dalla parte dell’esploratore.

“Posso crederci?” o “Devo crederci?”

Quando vogliamo che qualcosa sia vero, ci domandiamo: “Posso crederci?”, cercando una scusa per accettarlo. Quando non vogliamo che qualcosa sia vero, ci chiediamo invece: “Devo crederci?”, cercando una scusa per rifiutarlo.

Immaginate di sentire nominare per la prima volta il concetto del gender pay gap, ovvero il divario retributivo di genere: qualcuno vi presenta dei dati come “per ogni euro guadagnato da un uomo, una donna guadagna solo 80 centesimi”, o magari “lo stipendio medio di un programmatore è di €1500 mensili, mentre il medesimo valore per le programmatrici è €1300”.

Probabilmente, se tra le vostre posizioni precedenti ce ne sono alcune come “la mentalità dominante in Italia è di stampo patriarcale” o “le donne sono discriminate rispetto agli uomini”, prenderete l’informazione per buona, dal momento che è del tutto compatibile con il quadro che avete già in mente. Di fronte all’informazione nuova, in pratica, con ogni probabilità vi siete domandati “Posso crederci?”, e vi siete risposti che sì, si tratta di un dato coerente con il resto delle vostre posizioni.

Pensate se, al contrario l’informazione vi venisse presentata ad esempio come “La media degli stipendi femminili è effettivamente minore rispetto alla media maschile, ma tenendo conto di fattori come la mansione esatta, l’anzianità, un contratto a tempo pieno oppure part-time, la disponibilità a spostarsi o lavorare ore extra, e via dicendo, il divario scompare: a parità di condizioni, le donne vengono pagate tanto quanto gli uomini”: con ogni probabilità sareste restii a credere a questo dato che cozza con la vostra visione della faccenda. In altre parole, vi chiedereste: “Devo crederci?”, e a meno che le evidenze non siano eccezionalmente convincenti, sareste propensi a rispondere di no.

Ora, se vi siete rilassati pensando: “Io sono scettico/a di natura, non casco certo in queste trappole!”, temo di avere brutte notizie 🙂

Questo perché lo stesso meccanismo funziona anche al contrario. Se siete già diffidenti verso le istanze femministe, probabilmente la prima affermazione vi farà pensare: “Devo credere che le donne guadagnino solo l’80% di un uomo?”, mentre la seconda vi inviterà a dire: “Posso credere che i fattori extra spieghino tutto il divario?”.

In altre parole, lo scetticismo non basta da solo: anche chi si crede “razionale” rischia di combattere e difendere come farebbe un soldato, invece di esplorare come uno scout.

Arrivare fin qui, in ogni caso, è il primo passo per migliorare: la consapevolezza di come la nostra mente “funziona”, di come tende a ragionare e incastrare le nuove informazioni col resto del puzzle che ha già in parte messo insieme, è fondamentale per cominciare a essere un po’ meno soldati e un po’ più esploratori.

“È vero?”

Se il ragionamento direzionato è come essere un soldato che combatte contro prove minacciose, il ragionamento motivato dall’accuratezza è come essere una vedetta che traccia una mappa del territorio strategico. Cosa c’è oltre quella collina? È un ponte sul fiume o i miei occhi mi ingannano? Dove sono i pericoli, le scorciatoie, le opportunità? Su quali aree ho bisogno di maggiori informazioni? Quanto sono affidabili le mie informazioni? La vedetta non è indifferente. […] vuole scoprire cosa c’è realmente, senza illudersi di disegnare un ponte sulla sua mappa dove nella realtà non c’è. Avere un mindset da scout significa volere che la propria “mappa”, ovvero la percezione di sé stessi e del mondo, sia il più accurata possibile.

Il punto di svolta, qui, è cambiare la domanda che ci facciamo: non più “Posso crederci?” o “Devo crederci?”, ma semplicemente “È vero?”.

Naturalmente, chiedersi “È vero?” non significa diventare improvvisamente infallibili o privi di bias. Significa però impostare la nostra bussola in direzione diversa: spostarci dal desiderio di conferma al desiderio di accuratezza. È un passaggio sottile ma radicale, che cambia il modo in cui leggiamo i dati, ascoltiamo le argomentazioni degli altri, persino il modo in cui rivediamo le nostre stesse convinzioni.

Questa è la domanda che caratterizza la mentalità dell’esploratore: non cerca di proteggere un castello assediato né di smontare quello altrui, ma di capire se le informazioni che ha davanti corrispondono davvero alla realtà.

La mappa della verità

Tutte le mappe sono semplificazioni imperfette della realtà, come ben sa un esploratore. Cercare di ottenere una mappa accurata significa essere consapevoli dei limiti della propria comprensione, tenendo traccia delle aree della mappa che sono particolarmente sommarie o probabilmente sbagliate. E significa essere sempre aperti a cambiare idea in risposta a nuove informazioni. Nella mentalità dell’esploratore, non esiste una “minaccia” alle proprie convinzioni. Se scopriamo di esserci sbagliati su qualcosa, fantastico: abbiamo migliorato la nostra mappa, e questo non può che aiutarci.

Un titolo che sembra uscito da un romanzo fantasy per rappresentare una delle immagini più forti del libro: quella della “mappa mentale”.

Nessuno di noi ha la realtà in testa, abbiamo solo una rappresentazione approssimativa. Coltivare la mentalità dell’esploratore significa ricordarsi che la mappa non è il territorio, che può contenere inesattezze, parti mancanti e altre del tutto sbagliate, e che solo esplorando con attenzione possiamo migliorarla poco alla volta, passo dopo passo.

Questo approccio è utile soprattutto quando dibattiamo con qualcuno che la pensa in modo diverso. La reazione istintiva a un’obiezione è spesso di andare sulla difensiva: l’interlocutore non sta attaccando la nostra idea, ma noi personalmente. Se però accettiamo che la nostra mappa è solo provvisoria, allora ogni discrepanza non è più un affronto: è un’occasione per aggiornarla, un vero e proprio upgrade.

Inoltre, se quando cambiamo idea su un argomento ci fermiamo un attimo e pensiamo “la mappa ora è più accurata rispetto a ieri”, è un modo per associare emozioni positive a quello che altrimenti potrebbe sembrare un cedimento da parte nostra.

Conoscenza e falsa sicurezza

Essere intelligenti e conoscere un determinato argomento sono due cose che ci danno un falso senso di sicurezza nei nostri ragionamenti.

Anche qui Julia Galef tocca un nervo scoperto: siamo portati a credere che la soluzione ai problemi del dibattito pubblico stia tutta nel “più sapere, più studiare, più informarsi”. Ma la ricerca citata nel libro mostra che non è così: in questioni ideologicamente controverse, come il cambiamento climatico, non sono i meno istruiti a dividersi; al contrario, più aumenta il livello di conoscenza scientifica, più cresce la polarizzazione tra chi ha già un orientamento liberale e chi ha un orientamento conservatore.

È un risultato controintuitivo: proprio coloro che hanno più strumenti logici e culturali a disposizione non li usano per avvicinarsi alla verità, ma per difendere meglio la posizione che avevano già. L’intelligenza e la competenza diventano quindi armi retoriche, e non garanzie di imparzialità.

Se ci fermiamo a riflettere, possiamo riconoscerlo in molti ambiti. Pensiamo a quando discutiamo di scelte lavorative, politiche, o anche di tecnologie: quanto più siamo “esperti” in materia, tanto più rischiamo di scartare in anticipo opinioni divergenti, non perché le abbiamo valutate davvero, ma perché siamo convinti che “lo sappiamo già”. In quei momenti non stiamo ragionando da esploratori: stiamo solo usando la nostra esperienza come scudo.

Un modo per contrastare questa tendenza è allenarci a fare domande “da principianti” anche su argomenti che crediamo di padroneggiare. Non è semplice, perché l’ego protesta e ci dice che dovremmo avere già tutte le risposte. Ma proprio quell’atteggiamento di curiosità genuina è ciò che può aprire spiragli a intuizioni nuove, quelle che un approccio da “esperti” rischierebbe di soffocare.

In definitiva, l’intelligenza e la conoscenza restano strumenti potentissimi. Sta a noi decidere se usarli come armi da soldati per rafforzare le mura delle nostre convinzioni, oppure come bussole da esploratori per orientarci con più chiarezza nel territorio complesso della realtà.

Cambiare idea senza drammi

Cambiare spesso idea, soprattutto su convinzioni importanti, può sembrare mentalmente ed emotivamente faticoso. Ma, in un certo senso, è meno stressante dell’alternativa. Se vediamo il mondo in termini binari in cui tutto è bianco e nero, cosa succede quando incontriamo evidence contrarie a una delle nostre convinzioni? La posta in gioco è alta: dobbiamo trovare un modo per respingere le prove, perché se non ci riusciamo, la nostra intera convinzione è in pericolo. Se invece vediamo il mondo in sfumature di grigio e pensiamo al “cambiare idea” come un cambiamento incrementale, allora l’esperienza di incontrare prove contrarie a una delle nostre convinzioni è molto diversa.

Qui si ribalta un pregiudizio comune: che cambiare idea sia da deboli, da individui che non sono in grado di far rispettare le proprie posizioni e che cedono di fronte alla prima persona che cerca di punzecchiarci. In realtà, se viviamo le convinzioni come “blocchi monolitici”, allora sì: ogni informazione contraria sembra una minaccia alla nostra integrità intellettuale, morale o altro.

Se invece ci abituiamo a pensare in termini incrementali — un passo alla volta, oppure in sfumature di grigio — cambiare idea diventa meno doloroso. È come aggiornare un software: non devi reinstallare tutto, basta un aggiornamento alla versione 2.1.

Questo può aiutarci a considerare le convinzioni come ipotesi di lavoro, non come dogmi. “Per ora credo X, ma sono pronta a passare a X + 1 se trovo nuove prove”. In questo modo, il cambiamento non è una resa: è una sorta di “manutenzione ordinaria” della nostra mente e dei nostri pensieri.

Identità con leggerezza

Mantenere un’identità con leggerezza significa trattare quell’identità come contingente, dicendo a se stessi: “Sono un liberale, finché continuerà a sembrarmi che il liberalismo sia giusto”. Oppure: “Sono una femminista, ma abbandonerei il movimento se per qualche motivo dovessi credere che sta causando un danno”. Significa mantenere un senso delle proprie convinzioni e dei propri valori, indipendentemente dalle convinzioni e dai valori del gruppo, e riconoscere — almeno nella privacy della propria testa — i punti in cui queste due cose divergono.

Probabilmente è uno dei passaggi più difficili da mettere in pratica.

Siamo abituati a pensare alle identità politiche, ideologiche o professionali come a etichette stabili, fonti di orgoglio e appartenenza. Ma la mentalità dell’esploratore suggerisce di indossarle con più leggerezza, come semplici descrizioni utili finché rispecchiano ciò che pensiamo, senza trasformarle in vessilli da difendere a ogni costo.

Mi sono molto rispecchiata nel capitolo che porta come esempio la storia di chi si definiva “femminista” e sentiva ogni critica al femminismo come un attacco personale. Ripensando a quell’identità in termini più sobri — come “una persona che concorda con la maggior parte delle idee del consenso femminista” — è riuscito a disinnescare l’impulso difensivo, trovando più spazio per valutare gli argomenti nel merito. Non significa rinnegare un’etichetta, ma liberarsi dalla necessità di difenderla a tutti i costi.

Portare le identità con leggerezza non vuol dire non avere valori o principi. Vuol dire, piuttosto, impedire che diventino gabbie che ci obbligano a difendere una bandiera anche quando ci accorgiamo che non rappresenta più ciò che pensiamo davvero.

Conclusioni

Quelli che ho citato sono solo alcuni spunti: il libro è molto più ricco, e contiene una quantità di esempi ed esercizi pratici che non ho voluto spoilerare, perché credo valga davvero la pena leggerlo dall’inizio alla fine.

Non considero affatto di essere “arrivata alla verità” grazie a queste pagine, né tantomeno di avere trovato la ricetta definitiva per insegnarla agli altri. Al contrario: per me The Scout Mindset è soprattutto una bussola, un orientamento che cerco di seguire piuttosto che un traguardo da esibire. Ogni volta che leggo, discuto o indago un argomento, provo a ricordarmi di assumere questo atteggiamento da esploratore: non sempre ci riesco, ma l’obiettivo è riuscirci un po’ di più ogni volta.

A chi si chiedesse “cos’ha questo saggio di diverso da tanti altri?”, risponderei che non lo consiglio perché l’abbia trovato rivoluzionario nelle idee o nei contenuti (ad esempio informazioni su bias cognitivi e fallacie logiche si trovano facilmente online in tutte le salse possibili): ciò che lo rende speciale è il modo in cui affronta questi temi. Non è un testo astratto o teorico, ma un saggio che crea immagini vivide e le accompagna con esempi e consigli concreti, legati a esperienze in cui chiunque si può riconoscere.

Un ulteriore aspetto aspetto che rende il libro prezioso, secondo me, è anche il suo tono: non accusa, non giudica, non fa sentire in colpa per il fatto di cadere in “modalità soldato”. È un atteggiamento umano, inevitabile, che tutti pratichiamo. Julia Galef non pretende di ergersi a guru capace di dirci “come si ragiona davvero”, ma propone piuttosto un percorso graduale per allenare la consapevolezza e ridurre i nostri autoinganni.

Ed è proprio questa la forza del libro: offrirci strumenti pratici per diventare un po’ più lucidi, un po’ più curiosi, un po’ più onesti con noi stessi. Non ci rende esploratori perfetti dall’oggi al domani, ma ci aiuta a mettere un piede davanti all’altro nella direzione giusta.

E soprattutto, è un approccio che non vede nel cambiamento di idea una sconfitta, bensì un aggiornamento della mappa. Non è questione di vincere o perdere: è questione di orientarsi meglio nel territorio complesso della realtà.

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